Cartier-Bresson diceva che se il film aveva a che fare con la vita, la fotografia rimandava alla morte, una riflessione estremizzata che ci ricorda quanto sia perturbante l’immagine ferma nella nostra mente se il tema dell’assenza, o dell’attesa come assenza, è al centro della ricerca proposta, come nel caso degli scatti di Stefano Cioffi. La musica, le cui radici sono sottilmente sottese alle immagini essendo l’altro referente artistico dell’autore, ci prospetta continuamente una riflessione legata a questo tema.
Fino al tardo romanticismo la tensione della composizione era tutta rivolta al finale; la musica tonale dell’epoca ci comunica infatti tuttora un’irresistibile attesa verso la risoluzione di quanto proposto tramite le sue cadenze: una sorta d’idrovora temporale che ha la forza di esorcizzare il fantasma della fine, sia dell’opera ascoltata, sia del piano esistenziale sotteso. Quando questa idea classica di un finale tranquillizzante viene a mutare sul finire dell’Ottocento, il nuovo linguaggio musicale ci introduce a una idea nuova e a una presa di contatto emotiva diversa. La sicura conclusione del finale lascia il campo, nel corso della composizione, a pause, silenzi e spesso il suono si spegne in un buio, un’assenza del suono che ci rimanda a una sensazione di dubbio e sospensione. La continuità della frase, del periodo, della linea melodica lasciano spazio a un altrove emotivo, che ci sorprende, ci turba, e ci costringe a riflettere. Lo spazio/tempo si riempie di estraneità e assenza. Qualcosa che lo stesso cinema, uscito dal muto, può finalmente sperimentare, in quel periodo, introducendo il silenzio nella sequenza delle immagini (“Il cinema sonoro ha inventato il silenzio” dirà Robert Bresson).
Nello stesso periodo il movimento psicoanalitico sviluppa una nuova prassi terapeutica che fa dell’assenza uno dei pilastri della sua teoresi. Lo stesso sgorgare dell’attività del pensiero viene legato alla mancanza dell’oggetto che il soggetto colma con lo sviluppo dei suoi processi psichici. Non solo, ma anche la comunicazione profonda tra gli inconsci è più intensa se manca uno stimolo diretto. L’assenza allora diventa inconsciamente il testimone di uno stadio indefinito e primario, carico di una sottile nostalgia per una condizione fusionale che la stimolazione sensoriale può invece inibire. Queste foto rimandano a una condizione emotiva nella quale la mancanza di un punto di riferimento chiaro ci trasporta in una dimensione onirica silenziosa, di tensione e di pacificazione allo stesso tempo, che pur sempre c’interroga.
Gli scatti di Cioffi sembrano generare punti di contatto, costruire possibili nessi, sia nella mente di chi li guarda, sia tra l’autore e l’osservatore, perché “L’assenza è un ponte tra noi, più sottile di un capello, più affilato di una spada” (Nazim Hikmet). Stefano Cioffi si sofferma più sui vuoti che sull’oggetto, secondo un modo di concepire l’osservazione tipicamente orientale. In questa visione l’artista è teso a cogliere l’oggetto decostruendo la sua identità, per rivisitarlo in una prospettiva nuova, sospesa, che ne rivela l’essenza vuota al pari di quella piena. Il vuoto avrebbe la qualità, quindi, di contenere e fare emergere tutte le forme, poiché la vacuità agisce all’interno di ciascuna forma e ne costituisce l’essenza. Anche un’immagine, una foto, può, soprattutto in quello che non dice, non descrive, ma a cui allude, essere portatrice di linguaggi e rappresentazioni che colmano lo spazio emotivo dell’immaginario, nel quale l’impensabile si concretizza e prende forma.
In quest’ottica anche le ombre finiscono per saturare lo spazio dell’attesa, come suggeriscono le parole di Jean Claude Lemagny: “Il capovolgimento fotografico fa sì che la luce diventi astratta e l’ombra materiale. Questa priorità ontologica dell’ombra fa allora di questa il luogo stesso dove l’enigma si nasconde o si condensa. Lì ha luogo l’incontro dell’evidenza e del mistero che è tutta la fotografia”.
Le tracce dell’assenza che le foto di Stefano Cioffi ci propongono vengono così trasformate dalla nostra percezione come indice di una presenza. Le emozioni che da essa scaturiscono ci riportano ai nostri vissuti, ai nostri sogni e alle nostre inquietudini, dando loro un nuovo statuto: non più solo espressione dell’autore, ma elemento che, in quanto artistico, non appartiene più solo a chi lo ha generato, ma anche a chi, con gratitudine, ne usufruisce.