Fragili edificazioni poste sulle rive di un corso d’acqua, spazi aperti caratterizzati dai segni della presenza umana, luoghi abbandonati che si contrappongono ad aree industrializzate, sentieri che portano verso il nulla, boschi immutabili e inquietanti, totalmente disinteressati alle vicende umane. Lo sguardo di Stefano Cioffi si muove in una realtà ambientale molto precisa, quella del territorio che accompagna per sessantadue chilometri il fiume Mignone, tra la provincia di Roma e quella di Viterbo.
Non tragga in inganno, però, questa chiara indicazione geografica, poiché tale aspetto, a un’attenta indagine, si manifesta come un acuto pretesto, nel senso più profondo del termine. Si tratta, in sostanza, di una motivazione apparente che allude ad altre istanze. Il viaggio fisico di Stefano Cioffi lungo le sponde del Mignone, infatti, va necessariamente letto in base a un’analisi che sia in grado di rivelare la stratificazione di senso del suo lavoro.
La superficie contenutistica del suo progetto, legata a una concezione tipica della documentazione fotografica, cela la reale natura del suo spirito creativo. Il risultato delle sue osservazioni sul campo si spinge ben al di là della prevedibile e fedele riproduzione dell’esistente. Si coglie, infatti, nelle sue immagini una relazione con il paesaggio che prefigura un’inquietudine interiore impossibile da catalogare secondo i canoni dei “generi fotografici”.
Inoltre, sarebbe troppo riduttivo limitare la descrizione di questo suo lavoro al tema, già molto esplorato in ambito fotografico, del confine (geografico e amministrativo). Quest’ultimo elemento, oltretutto, non va inteso come fattore di separazione, di frattura e di razionalizzazione insensata del territorio, quanto piuttosto come linea impalpabile di apertura, di passaggio da una dimensione a un’altra.
Dunque, il fiume, inteso come alveo di scorrimento delle acque e come linea di sbarramento tra due provincie, evoca una volontà da parte dell’autore di superare, con lo sguardo, ogni possibile limite, nella consapevolezza che spingersi idealmente in uno spazio enigmatico nel quale liberare la propria coscienza sia un’operazione realmente creativa. L’azione fisiologica del suo occhio, amplificata e dilatata dall’uso del dispositivo ottico, è niente altro che la generazione spontanea e incontrollabile di un’indagine di tipo mentale che connette l’atto di fabbricazione artistica a un impulso di verità. Questa esigenza di sincerità espressiva non riguarda, però, la sterile questione della replica fotografica del mondo quanto piuttosto la necessità di far emergere in un unico flusso visivo ed estetico la sostanza di un pensiero che ribolle interiormente e che tende a manifestarsi in modo inevitabile.
Lo sguardo di Stefano Cioffi è proiettato oltre il paesaggio stesso; è strumento di un processo di approfondimento personale che non ha nulla a che fare con l’approccio semplicemente figurativo e con l’intenzione di procedere per composizioni estetizzanti. La sequenza continua della mutazione dei punti di vista, inoltre, lo induce a porsi sempre nella condizione di chi non intende fornire (agli altri) visioni del mondo che siano intrappolate in gabbie di significati opprimenti, oggettivi e limitanti. Nel suo procedimento creativo, il meccanismo dello sguardo appare del tutto ribaltato; non è, quindi, riscontrabile una linea unidirezionale di determinazione del mondo.
Non è il fotografo che “riconosce” qualcosa nello spazio ambientale ma è il “luogo” a identificare in maniera autonoma un aspetto dell’animo di chi scatta e a collocarsi nella mente di quest’ultimo. I paesaggi, le aree industriali, le strade che portano verso il nulla, le strutture architettoniche si configurano, così, come fattori in grado di raccontarci la sfera interiore del fotografo. In tal senso, bisognerebbe affermare come Stefano Cioffi sia “fotografato” dalle sue immagini, sia designato da ciò che guarda, da ciò che cattura la sua attenzione, poiché è lui stesso ad essere guardato da ciò che incontra lungo il suo cammino.
L’autore si pone, dunque, non come selezionatore di porzioni di realtà ma come abile recettore di impulsi visivi, di segni.
Le sue immagini sembrano superficialmente equilibrate e algide, quasi ossessivamente oggettive ma comunicano al fruitore contenuti non banalmente definibili. I segni del passaggio umano lasciano spesso spazio al vuoto, al non senso, alla sospensione. La sottrazione sembra essere un altro elemento portante, così come la volontà di esprimersi non solo attraverso ciò che è collocato all’interno dei bordi delle inquadrature.
Nelle immagini di Cioffi, ciò che non si riesce a vedere ha la stessa importanza di ciò che si vede. In sostanza (come già detto), il fotografo si lascia “fotografare” dal paesaggio e allo stesso tempo “divulga” esteriormente il suo mondo psichico e privato attraverso ciò che viene sottratto alla vista del fruitore delle immagini (il quale, in tal modo, è spinto all’atto gratificante della libera immaginazione).
Chi guarda i suoi scatti ha la possibilità di essere fagocitato dalle immagini stesse. Non ne viene rassicurato, oppure respinto; ne viene attirato in modo inesorabile.
Il vuoto, la mancanza e l’assenza hanno nelle sue opere fotografiche un valore lirico e un peso estetico; evocano il sentimento percettivo dell’autore, il quale nel suo peregrinare lungo il fiume Mignone non fa altro che cercare dentro se stesso.
Il suo “viaggio geografico” risponde a un autentico e non più rimandabile desiderio di autoanalisi. La sua relazione visiva con il mondo si palesa in una penetrante tragicità, caratterizzata, oltretutto, dalla sostanziale indifferenza del paesaggio alle questioni umane. Le edificazioni, le costruzioni industriali, le strade sono ferite brutali che sezionano la carne del territorio, mentre proprio il territorio assiste nella più completa imperturbabilità all’azione sconsiderata del genere umano. La natura appare “altro” rispetto al cosiddetto “progresso” della società moderna e si manifesta in tutto il suo insondabile mistero.
Ed è proprio nelle inquadrature nelle quali l’ambiente si impossessa completamente dello sguardo di Stefano Cioffi che il fotografo diviene miracolosamente elemento stesso della raffigurazione. Un bosco fitto ed enigmatico e lo scorrere semplice di un corso d’acqua trasmettono al fruitore l’essenza più autentica dell’autore, il quale si ritrova (perdendosi) dopo aver tentato invano di collocarsi nella porzione di mondo inquinata dal passaggio umano.
Stefano Cioffi ha, dunque, effettuato un percorso dentro il proprio abisso, compiendo, in tal senso, prima che un’operazione creativa una riflessione sulla propria condizione di individuo nel mondo contemporaneo. E tale riflessione non è scaturita da un’impostazione di tipo razionalistico (meno che mai banalmente professionale) ma da un’esigenza di espressione che si è generata autonomamente e che, inevitabilmente, l’ha spinto oltre il limite dell’azione della ragione.
Per tale motivo, le opere che compongono questo lavoro si manifestano più come l’emersione di immagini autoprodotte dalla sua mente (esattamente come avviene per la creazione incontrollata dei sogni) che come duplicato della realtà. È grazie a questo meccanismo, fuori dai codici e dagli schemi della lingua fotografica, che Stefano Cioffi, partendo inconsciamente dall’identificazione hillmaniana dell’anima dei luoghi, è riuscito nella quasi impossibile impresa di rintracciare una parte di se stesso destinata all’oblio.