La città è la più ossessiva e delirante delle forme di organizzazione umana. Ciò che si cela dietro l’edificazione “razionale” degli sterminati agglomerati urbanistici del mondo contemporaneo è la volontà da parte dell’essere umano di esercitare un controllo assoluto sulla presunta realtà. Questa esigenza frustrante trasforma l’idea stessa di metropoli in un corpo informe e indefinibile che si manifesta come macchina erotizzante e feticistica. Ma non solo. La tensione organizzativa che caratterizza il concetto di città finisce per generare spazi di non senso che vengono causati dal corto circuito che inevitabilmente si viene a creare nell’ambito della parabola “crescita-abbandono”.
In tal senso, i luoghi destinati alle attività sportive risultano emblematici. Spazi concepiti per la socializzazione e la “messa in scena” dello spirito competitivo umano si trasformano nel corso del tempo in aree fuori controllo, in territori vacui e insensati che semplicemente alludono alle finalità per le quali erano stati concepiti. Questo meccanismo non fa altro che generare micro universi fantasmatici. Gli echi del razionalismo della società contemporanea si disperdono in una dimensione enigmatica e la natura, nella sua gelida e asettica indifferenza, finisce per riconquistare inesorabilmente il suo spazio originario.
Grazie al suo sguardo sensibile, Stefano Cioffi riesce a cogliere, con lucida maturità creativa, il tormento umano nei riguardi di una volontà di controllo impossibile da applicare in modo compiuto.
La struttura estetica delle sue immagini è determinata da un sentimento percettivo che gli permette di documentare e rintracciare, sotto gli strati sovrastrutturali dell’agire umano e le macerie prodotte dall’idea di controllo, la sostanza archetipica e misteriosa dei luoghi.
Gli spazi cittadini deputati alla pratica sportiva nelle immagini di Cioffi si manifestano nella loro assenza di significato, divengono siti nei quali è possibile percepire esclusivamente il ritmo sospeso del silenzio.
Il rigore fotografico/espressivo grazie al quale vengono rappresentati questi microcosmi mette a fuoco il dramma di una coscienza sociale alle prese con una tragica autoreferenzialità che vede nell’idea stessa di sport la sua più bizzarra espressione.
La società cerca, disperatamente, di parlare di sé stessa e con sé stessa. E di autorappresentarsi all’interno di un territorio metaforico. Ma il mondo circostante non risponde, mai. Non rimane altro che il fantasma di una realtà forse solo immaginata, sempre pateticamente sognata, e che si palesa al dispositivo ottico e allo sguardo del fotografo nella sua glaciale e indecifrabile ambiguità.