Nella serie televisiva francese Les Revenants (2012 – 2015), un’intera comunità di montagna, isolata dal resto della regione da boschi fittissimi e da una gigantesca e inquietante diga, vive una condizione di apparente armonia. Uno spaventoso incidente, però, cambia per sempre tale idilliaca situazione. Un pullman scolastico pieno di adolescenti (ovvero il futuro della comunità) precipita in un burrone. Tutti i ragazzi muoiono, salvo poi riapparire in modo inspiegabile, lasciando un vuoto spaventoso in una società che sembrava protetta da ogni pericolo.
Lo spunto narrativo iniziale de Les Revenants ricorda, seppur con le debite differenze, il plot del capolavoro del cineasta armeno-canadese Atom Egoyan intitolato Il dolce domani (1997). Anche in quest’opera, una collettività montana viene totalmente devastata, moralmente e psicologicamente, da un incidente che cancella improvvisamente dalla faccia della terra un’intera scolaresca.
Ebbene, sia la serie tv transalpina che il film di Egoyan tentano di addentrarsi in un territorio di riflessione molto significativo, ancorché impervio.
La relazione tra ambiente e genere umano sembra, nei casi sopracitati, governata da due fattori principali: l’indecifrabilità degli accadimenti che si svolgono nel contesto della natura e l’esito mortifero e infausto dell’azione umana nei riguardi di un pianeta che per quanto possa sembrare piegato alle esigenze della società rimane distante e indifferente a tutto.
La morte così, considerata catastrofica per gli uomini, diviene un semplice “fatto” che rientra in un ciclo inspiegabile, quanto inevitabile.
Tale ragionamento appare necessario per introdurre e sviluppare un altro tema fondamentale, ovvero il tentativo scomposto da parte del genere umano di intervenire sulla natura con operazioni molto violente e invasive. Questo sforzo nasconde una delle problematiche ritornanti della storia dell’umanità: il desiderio di controllo assoluto del mondo. In tal senso, è sufficiente allontanarsi pochi chilometri dalle nostre città per imbattersi in territori naturalistici disseminati di segni lasciati dagli esseri umani, di elementi ideati ed elaborati per cercare di dare ordine al disordine anarchico del territorio naturalistico. Quest’ultimo è, di fatto, estraneo alle regole della pianificazione antropica e al tentativo patetico da parte della società di trasformare tutto ciò che incontra in una macchina produttrice di denaro.
Il risultato è che le campagne e le montagne che circondano le metropoli (Roma compresa) si configurano spesso come luoghi stranianti, densi di abbandono. Le macerie della presunta razionalità, del cosiddetto sviluppo, si ergono in un nulla estraneo all’idea, tutta culturale e storicistica (e in parte religiosa), di un mondo al “servizio” dell’umanità.
Se partiamo dai presupposti appena espressi, è possibile analizzare l’opera fotografica presentata in questo libro di Stefano Cioffi in modo molto più ampio rispetto a ciò che potrebbe essere effettuato rimanendo nella comfort zone della lingua fotografica e nello spazio, ancor più asfittico, della cosiddetta fotografia documentaria.
Il valore delle opere di Cioffi, infatti, non è rintracciabile nell’evidente, quanto fuorviante, adesione al concetto (ovvio) di realtà.
Per chi scrive, ogni immagine di Cioffi possiede, sotto una patina descrittiva, una sostanza autoriale che comunica al fruitore fattori che fanno parte di una stratificazione semantica che può essere messa a fuoco solo dopo l’azione comunicativa del significante (che è immediata e non ha bisogno di alcuna spiegazione).
Ciò che colpisce negli scatti di Cioffi è la sostanziale complessità delle inquadrature che sotto uno strato oggettivo presentano altri livelli nei quali sono innestati elementi puramente soggettivi, elementi che hanno a che fare con i concetti di estetica e poetica.
Lo sguardo del fotografo è correlato alle realtà raffigurate da un sentimento che si genera nell’esperienza della percezione (estetica) e da una dimensione di riflessione personale (poetica) che è, peraltro, riscontrabile in tutto il suo percorso di fotografo.
Cosa cerca, quindi, Stefano Cioffi nelle aree dell’appennino dell’Italia centrale? Perché il suo sguardo è così attratto dai segni della civilizzazione sul paesaggio? Perché tenta di evidenziare il legame inquietante che viene crearsi tra forza archetipica della natura e sostanza precaria dell’agire umano?
Se si studiano con attenzione le opere che compongono……..………….. è possibile accorgersi dell’esistenza di una precisa impostazione stilistica.
Le inquadrature sono, quasi esclusivamente, organizzate intorno alla fattispecie del campo lungo o lunghissimo e mostrano un mondo che fa emergere una situazione che potremmo definire straniante.
Grandi alberghi che ricordano l’Overlook Hotel di kubrickiana memoria (Shining, 1980), stazioni sciistiche abbandonate, enormi spianate vuote che si manifestano come spazi del non senso, strade che portano verso centri abitati deserti, infrastrutture che feriscono il paesaggio. Ci troviamo di fronte a un labirinto di immagini senza speranza. Si tratta di inquadrature algide, che restituiscono al fruitore l’indifferenza dell’ambiente ripreso. Più che il gelo fisico della neve, a denunciare una sensazione di spaesamento è l’angosciosa compostezza delle inquadrature che non sembrano comunicare alcunché di vitale.
L’azione dell’uomo sul territorio non produce nulla, è sterile e inutile. Si manifesta come gli infruttiferi esiti di una feroce insoddisfazione, come la prova dell’impossibilità della razionalizzazione dello spazio visibile. Al contempo, alcune immagini di aree urbanizzate molto buie (nonché quella di una casa seminascosta dentro un bosco) aprono il lavoro di Cioffi anche a una sostanza di tipo psicoanalitica.
Il senso di protezione che palazzi e abitazioni dovrebbero evidenziare viene, infatti, totalmente a vaporizzarsi per lasciare spazio a una dimensione misteriosa e incomprensibile che genera solo uno spiazzamento dello sguardo.
Scorrere le opere di…………………. una a una consente al fruitore di proiettarsi in un percorso sequenziale che, paradossalmente, sembra condurre verso una sicurezza percettiva consolatoria. Ma così non è. I paesaggi desolati, le visioni ampie e distaccate, la frontalità di talune inquadrature, i punti di vista che alludono al tema dell’istanza narrante (una sorta di sguardo “divino” sul mondo) si configurano, a un’analisi superficiale, come fattori di un’architettura fotografica elaborata in modo rigido. In verità, questa struttura conduce inesorabilmente verso un horror vacui che fortunatamente non porta da nessuna parte.
Il frame che chiude il libro, in tal senso, conclude la linea espositiva in maniera perfetta e definitiva. Una strada che muore nel nulla, degli stabili avvolti in una nebbia gravida e appiccicosa, alcuni alberi spogli, sono tutti elementi visuali che fanno emergere un universo psichico-onirico che, paradossalmente, è molto più concreto della realtà stessa.
Stefano Cioffi, in definitiva, procede a livello compositivo secondo una logica spiazzante: racconta, apparentemente in modo asettico, il controverso rapporto tra uomo e natura ma allo stesso tempo si esprime in maniera allusiva, praticamente indecifrabile.
L’aspetto documentario delle sue opere, quindi, rappresenta solo una sorta di ingegnoso specchietto per le allodole, un’interessante trappola visuale che cattura l’attenzione del fruitore e poi la indirizza verso territori ben più complessi.
Non a caso sono stati citati all’inizio di questo testo la serie “fantasy-horror” Les Revenants e il film piscologico di Egoyan Il dolce domani. ………..……… condivide con questi due racconti audiovisivi l’allusività del linguaggio visuale, lo scarto nei riguardi del concetto di realismo e la forza poetico-filosofica della stratificazione dell’immagine tecnologica.
In alcuni lavori, inoltre, Stefano Cioffi riesce a raggiungere uno straordinario distacco espressivo, quel tipo di distacco che permette di vedere più in profondità cose e situazioni e che, ad esempio, è stato il tratto distintivo del lavoro di Joel Sternfeld intitolato Oxbow Archive (Steidl, 2008). In quel caso, il dispositivo ottico del fotografo americano fu indirizzato verso una zona naturalistica già al centro del lavoro del pittore Thomas Cole, il quale realizzò nel 1836 il quadro intitolato Wiew from Mount Holyoke after the Thunderstorm.
Ebbene, ciò che Stefano Cioffi condivide con Joel Sternfeld è un’impostazione che toglie di mezzo ogni possibile interpretazione di tipo romantico e consolatorio. In Cioffi, come in Sternfeld, la struttura della composizione produce un algido effetto di straniamento. Si tratta di una paraoggettività, che pur scaturendo da una visione di tipo socio-politico, apre un fronte interpretativo libero.
Gli scatti di Stefano Cioffi non sono mai semplicemente vedutistici, sono apparizioni prive del concetto depistante di bellezza che trasmettono sensazioni raggelanti.
Tutto è sospeso e immobile nelle sue immagini, tutto è in bilico tra segno del reale e abisso del non senso.
In definitiva, si tratta di visioni che tolgono di mezzo la parola borghese “speranza” e si manifestano attraverso una registrazione del visibile che simboleggia la tragica impossibilità della relazione tra natura e genere umano.